venerdì 7 dicembre 2012

Per te, Milano

Dedico questo post a Milano, nel giorno della festa del suo patrono, sant'Ambrogio.

L'altro giorno mi sono resa conto che sono ormai dieci anni che vivo la maggior parte del mio tempo in questa città. Anno dopo anno ho imparato a conoscere la sua topografia, come si impara a conoscere qualcuno a poco a poco. E mano a mano che la mia conoscenza aumenta, più mi sento a casa.
Guardando una cartina della città provo la sensazione rassicurante di trovarmi davanti a qualcosa di famigliare, un luogo in cui mi so muovere, a cui appartengo e che a sua volta mi appartiene.
Con il dito seguo le linee del metrò e le vie che come vene si diramano sulla carta, e mi soffermo sui nomi che più sono legati alla mia vita milanese. Mi pare di vedermi dall'alto, camminare per quelle strade, magari in un giorno gelido come oggi, o forse nel caldo torrido di luglio.
Ecco Porta Genova, con il piazzale della sua stazione attraversata dai binari del tram, che tante volte ho attraversato per recarmi alla scuola di fotografia, e poco lontano il Naviglio Grande, vicino al quale ho vissuto i primi tre anni, in una tipica casa a ringhiera, con il portone di ingresso che si apriva sulle corte.
Ho scoperto in seguito che Milano è piena di corti bellissime, in cui ci si imbatte inaspettatamente passando davanti ad un portone lasciato aperto. Luoghi che sembrano angoli di campagna, quasi anacronistici in una grande città.
Poi Corso di porta Ticinese, con quel negozio dark di cui sbircio spesso la vetrina, e poi il fantastico Paradiso delle Sorprese, dove comprerei tutto.
E giù verso il centro, ecco via Torino, con quelle viuzze laterali dove si celano negozietti un po' snob ma molto graziosi, e finalmente piazza del Duomo, brulicante di gente e piccioni. Guglie che si stagliano nel cielo, andirivieni continuo, turisti, studenti, signore benestanti, impiegati, frullio d'ali.
Lungo la linea rossa della metropolitana ecco Corso Buenos Aires, dove spesso vado a fare un giretto, passando per piazzale Loreto, e su, lungo viale Monza, fino a casa. Viale Monza da cui in lontananza si vedono le montagne.
Il mio quartiere, la graziosa piazzetta qui vicino, il mercato il mercoledì, la tintoria con la signora Nedda, dove mi sono finalmente fatta fare l'orlo a quei jeans che trascinavo da anni. L'omino della ricevitoria dove pago le bollette che mi fa sempre dei gran saluti quando passo lì davanti e lui sta sulla soglia. Il giornalaio dove prendo la Gazzetta i lunedì dopo i gran premi, e Dampyr e Vogue ogni mese. Il frappé o il gelato, ogni tanto, nel locale aperto da poco. Il suono familiare del dialetto, così simile a quello che parla mia nonna e che fa da sempre parte di me.
La luce aranciata dei lampioni. I gatti della vicina colonia felina. I mutevoli, sempre straordinari colori del cielo al tramonto che osservo dalla mia finestra. Così come il volo delle rondini, che si ripete puntuale ogni anno.
Il mio appartamentino. Casa.

Non so se vivrò per sempre in questa città, forse ad un certo punto mi trasferirò altrove, anche in un posto molto diverso, chissà. Ma ovunque la vita mi porterà Milano sarà sempre nel mio cuore. Gli sarò sempre grata per il periodo passato qui. Forse perché qui sono davvero diventata grande e ho trovato una mia strada. Come se solo in questa città avessi potuto trovare la chiave per scoprire l'autentica me stessa.
Per tutto questo qui mi sento a casa. Grazie a questo e grazie a quelle persone che ho conosciuto qui e che sono diventate per me una seconda famiglia.

E so che, dovessi stare lontana da Milano per molto tempo, quando scenderei di nuovo dal treno sotto le volte della Stazione Centrale, tutti questi pensieri mi travolgerebbero come un abbraccio pieno di calore e nostalgia e affetto, e riempirebbero i miei occhi di lacrime di gioia per essere tornata.







giovedì 6 dicembre 2012

Sulle primarie

Dalla puntata di venerdì scorso di Crozza nel Paese delle Meraviglie (programma satirico in onda su La7 ogni venerdì), eccolo in versione Guccini con una canzone sulle primarie del PD.
Lo avrete già visto ma non resisto a non postarlo  :-)


mercoledì 14 novembre 2012

Viaggiatori di frontiera



Essendo io un’habituée di viaggi transfrontalieri tra la Lombardia e il Canton Ticino, ho avuto e ho modo di notare parecchie cose che avvengono alla stazione di Chiasso, punto di confine tra i due Stati.
Dieci anni fa (aimé, come vola il tempo, non mi ero mai soffermata a pensare che sono proprio dieci anni…angoscia del tempo che passa…), quando è iniziata la mia avventura a Milano, ogni lunedì prendevo il Cisalpino.
Treno famigerato, tra parentesi, afflitto da problemi tecnici cronici con conseguenti ritardi cronici, moderno solo in apparenza ma scomodissimo, stretto, scomparti bagaglio a misura di puffo, assetto variabile che in certe persone provoca quasi un senso di nausea…per anni abbiamo aspettato i nuovi ETR che avrebbero dovuto prendere il posto del Cisalpino ma dieci anni dopo ancora non li abbiamo avuti, e la sua agonia continua, meno male non lo prendo più.
A Chiasso il treno si fermava sia per il cambio di personale sia per permettere alle guardie di confine, sia svizzere che italiane, di salire a bordo con tanto di cane al seguito per dare un’occhiata ai passeggeri. Mi ricordo di una ragazza, una studentessa, che come me ogni lunedì andava in Italia per frequentare l’università o quello che era. Era una ragazza molto semplice, dall’aria assolutamente innocua, con gli occhiali. Ogni lunedì (capitavo quasi sempre nel suo stesso scompartimento), arrivato alla sua altezza, il cane lupo delle guardie di confine cominciava ad abbaiare come un matto. E allora le facevano aprire la valigia e ispezionavano il tutto, e non trovavano niente. L’ennesima volta che si è ripetuta questa scena, la ragazza ha cominciato a piangere, a dire ai poliziotti, “ma io non ho niente in valigia, sono una bava ragazza, non so perché il cane faccia così!”.
E le guardie a calmarla, a ipotizzare che forse fosse qualche erba o pianta che lei aveva in casa e che la valigia ne portasse l’odore, insomma, cercavano di consolarla vedendola così disperata.
“Ma non lo so, non lo so!” diceva lei tra le lacrime, davanti agli agenti che la osservavano imbarazzati, e che alla fine le consigliarono di cambiare valigia.
Oppure mi ricordo di una guardia di confine che volle esaminare il contenuto della borsetta di una vecchina seduta di fronte a me, ma non degnò di uno sguardo la grande nera custodia di uno strumento musicale (o di qualcos’altro?) riposta nel portabagagli sopra al sedile di un tizio dall’aria losca seduto poco dietro a noi.
O di quel signore che ogni lunedì, puntualmente, si vedeva perquisire la sua borsa e a cui veniva chiesto il passaporto, ogni santo lunedì. Ma non vedevano che era sempre lui? Tra l’altro spesso erano gli stessi che lo controllavano.
O ancora di un padre anziano seduto davanti a me con suo figlio, a cui venne chiesta addirittura la propria agenda e poi venne invitato a scendere. Il figlio ovviamente lo seguì.
Dopo un po’ ritornano tutti e due, e mi ricordo che il vecchio signore disse, ironico:
“Bé, per questa volta San Vittore l’ho evitato”.
Mah. Avevano qualche motivo per sospettare di lui, mi chiedo? O le guardie di confine di Chiasso hanno una certa predisposizione per ficcare il naso negli averi dei passeggeri anziani?
Un’altra mattina si apre la porta dello scompartimento (non eravamo sul Cisalpino, questa volta, ma a bordo di uno di quei treni divisi in scomparti in cui se non ricordo male ci si stava in sei, una roba tipo Orient Express dei poveri), e fa capolino la guardia di turno.
Esibiamo i documenti, come sempre, poi lui chiede:
“Qualcuno di voi viaggia con più di 10.000 euro?”
(perché oltre i 10.000 euro bisogna dichiararli alla dogana)
Noi ci osserviamo con un sorrisetto, e un uomo di fronte a me esclama:
“Magari!”

Da qualche anno per tornare a Milano prendo un regionale espresso, un treno svizzero molto carino, il Tilo. Quando venne introdotto sulla tratta, mi ricordo che i pendolari italiani salivano e si guardavano attorno ammirati. Poveretti, anni e anni di Cisalpino o di regionali decadenti, hai voglia che il Tilo ti appare come la manna dal cielo. E’ in ogni caso un ottimo treno.
Per andare in Svizzera invece salgo su un triste regionale della Trenord, con le porte interne che se non le spingi con due mani non riesci ad aprirle, e occhio a non rimanerci in mezzo mentre cerchi di oltrepassarle con la valigia al seguito. Comunque fa il suo dovere, e date le mie finanze sono anni che mi sono auto declassata ai regionali (che devo dire generalmente sono puntuali, certo, poi succede che il riscaldamento non funzioni e arrivi a Chiasso tipo bastoncino findus, ma alla fine non è che devo viaggiare molto a lungo quindi non mi lamento).

Negli ultimi anni le guardie di confine sul treno si limitano ad un passaggio veloce, in genere non chiedono neanche i documenti né niente.
Quando si arriva a Chiasso e si scende per cambiare treno però sono là schierati, e ti osservano. Provo sempre un certo disagio mentre passo loro davanti. Non sai mai se guardarli, dire buongiorno, ignorarli, boh. Ti chiedi, e se avessi un’aria sospetta? Trasporto spesso le cose più improbabili in valigia. Niente di compromettente o illegale, e certamente non soldi, ma mi darebbe abbastanza fastidio che quelli ficcassero il naso tra le mie cose.
Fortunatamente fino ad ora non hanno ritenuto la mia valigia sospetta, e probabilmente io stessa ho un’aria piuttosto innocente.
E poi le guardie di confine sono troppo occupate a perquisire praticamente ogni persona visibilmente straniera, che contrariamente a me non è libera di transitare senza problemi su quella linea invisibile che separa le due nazioni.
Quante persone di colore, o arabe, ho visto far scendere dal treno, anche in modo abbastanza sbrigativo e supponente, e scortate negli uffici della dogana. A quanti di loro ho visto controllare il documento, utilizzando un ridicolo codice che fa tanto film americano, o dover giustificare anche il più piccolo sacchetto che hanno con sé, e quelle domande, dove vai, da dove vieni, e questo dare del tu che non verrebbe impiegato se quelle persone fossero occidentali.
Questo pregiudizio secondo cui gli “extracomunitari” sono per forza infidi, da tenere d’occhio, esseri umani tendenzialmente peggiori di noi. O almeno questa è la sensazione che ho io, osservando certe scene.

Pensieri, ricordi, legati a quella stazione di confine, e al mio saltuario transitare tra una nazione e l'altra.

Il Tilo sotto le volte della Stazione Centrale di Milano





Chiasso, stazione di confine


martedì 6 novembre 2012

Il dono

Era un giorno d'autunno, dal cielo grigio. Avevo da poco cominciato la prima elementare. Era sabato, credo, oppure un mercoledì che era il giorno in cui al pomeriggio non si andava a scuola.
I miei genitori dovevano andare ad una riunione, così mi portarono a casa dei nonni.
Mi ricordo un mobiletto, nell'atrio, e dentro tanti libri rilegati. Classici, suppongo. Non sapevo leggere, conoscevo solo alcuni rudimenti appresi in quei primi giorni di scuola. I miei genitori, insegnanti anche loro, non avevano voluto insegnarmi prima a leggere, preferendo che imparassi a scuola con la mia maestra.
Non so se l'idea fu mia o del nonno, o di entrambi. Mi ricordo noi due chini su Mary Poppins, e di come le lettere, e poi le parole, e poi le frasi e la punteggiatura, prendevano un senso davanti ai miei occhi, e di come il loro significato si svelava, luminoso, sotto la guida del nonno.
Tutto andava al suo posto con facilità, come un puzzle di cui si riesce a sistemare agilmente tutti i pezzi.
La mia mente che tanta confusione avrebbe sempre fatto con i numeri e con le formule scientifiche, apprese in poco più di un'ora a leggere e a comprendere ciò che leggeva, a fare le giuste pause dettate dalla punteggiatura. Come se fosse qualcosa che avevo già fatto, chissà, in una vita lontana, e che avesse solo bisogno di essere ricordato, riportato alla luce.
Quando i miei genitori vennero a prendermi, sapevo leggere. Da quel pomeriggio lontano quanti libri, romanzi, fiabe, poesie, racconti, fumetti, articoli, hanno nutrito la mia anima, facendomi pensare, ridere, fantasticare, commuovere, e sentire meno sola nello strano cammino che è la vita.

E' stato uno dei doni più preziosi che io abbia mai ricevuto. Nonno, non ti ho mai ringraziato per questo. Non sai come mi piacerebbe, se tu fossi ancora vivo, scriverti per Natale o per il tuo compleanno un biglietto in cui ti parlo di quel giorno e di come non l'abbia mai dimenticato. Solo ora che sono grande ho capito quanto sia stato speciale quel tuo regalo. Ma te ne sei andato tanti anni fa, un pomeriggio di sole, nella casetta di legno che tu stesso avevi costruito, e che c'è ancora, discreto come sei vissuto.

Ho tenuto con cura tutti gli oggetti che hai fatto per me. Il lettino e il seggiolone per le bambole, entrambi in legno dipinto di rosa, la specchiera per le Barbie, così ben fatta che gli fa un baffo a quelle di plastica della Mattel, la casa in cui facevo vivere i Playmobil, con quell'ampia terrazza e le scale di legno che uniscono i vari piani, i trampoli in legno che mi avevi costruito quando mi era venuta questa passione, e poi quella gabbietta sempre in legno per trasportare i miei criceti. Tu sapevi costruire tutto. Spero che un giorno queste cose accompagneranno i giochi dei miei bambini, se ne avrò.

Te ne sei andato troppo presto, nonno. Come mi piacerebbe parlare con te oggi, tu che eri una persona così intelligente e gentile. Un uomo buono. Potremmo metterci a sedere sotto al vecchio ciliegio, davanti alla casetta di legno, a bere una limonata o uno sciroppo di frutta, come quando ero piccola, e ce ne staremmo lì tranquilli a chiacchierare, e ricorderemmo anche quel pomeriggio lontano quando mi regalasti la magia della lettura.



lunedì 5 novembre 2012

Autunno

Ho realizzato questa foto lo scorso anno. Si potrebbe fare meglio, ma dati i mezzi e la location che avevo a disposizione, il risultato non mi dispiace, trovo che abbia una certa armonia.
Mi piacerebbe riuscire a fare una cosa del genere in un bosco, quindi più alberi e più foglie sul terreno...prima o poi...

Un piccolo incubo d'autunno  :-)



domenica 4 novembre 2012

Skyfall

Ieri sono andata a vedere Skyfall, il ventitreesimo episodio della saga di James Bond. Avevo letto ottime recensioni, e devo dire che concordo in pieno con questo giudizio positivo.
Il film si apre con un inseguimento mozzafiato che comincia nel mercato di Istanbul, città dove Bond (incarnato per la terza volta da Daniel Craig) e una sua collega si trovano per recuperare dei files rubati.
La missione non ha esito positivo, tutt'altro, dato che 007 sembra perdere la vita alla fine di questo frenetico inizio di film. Dopo gli splendidi titoli di testa che si snodano sulle note della voce di Adele, scopriamo che l'MI6, i servizi segreti britannici, ed in particolare il loro capo, M (interpretata ancora una volta da Judi Dench), sono sotto attacco. Un misterioso nemico sembra essere disposto a tutto pur di portare alla luce qualcosa di scomodo che si nasconde nel passato di M.
Bond, creduto morto ma in realtà vivo e vegeto, torna in Inghilterra spinto dalla lealtà verso il suo anziano capo, e, benché indebolito dalla ferita subita e da una temporanea dipendenza da alcool e farmaci, torna in campo per difendere M e l'MI6 dal folle Silva (un grandissimo Javier Bardem), assetato di vendetta.
Un film che celebra in grande stile il cinquantesimo anniversario dell'agente segreto più famoso del mondo, forte di una storia avvincente che dosa perfettamente colpi di scena, citazioni alla tradizione bondiana (non frutto di facili ammiccamenti, a mio modo di vedere, ma bensì di un genuino affetto per questa saga cinematografica, sia da parte degli sceneggiatori che del regista Sam Mendes), spettacolari scene d'azione, una raffinata fotografia, e, ultimo ma non ultimo, scava nel passato di Bond, dando ancora più spessore ad un personaggio che a partire da Casinò Royale (2006) ha trovato in Daniel Craig un lato più umano rispetto al passato, smettendo i panni dell'agente supereroe supportato da fantastici super gadgets impegnato a salvare il mondo da folli criminali con un'infinita sete di dominio (penso in particolar modo ai Bond di Roger Moore, che guardo sempre con piacere, proprio per queste loro caratteristiche, ma apprezzo moltissimo la virata compiuta con Craig, che mi sembra un ottimo 007 del nuovo millennio).
Buona parte di Skyfall si svolge in Gran Bretagna, a Londra e poi, per il sorprendente finale, nella brughiera scozzese. James Bond per il suo cinquantenario omaggia dunque la sua patria, l'isola che gli ha dato i natali e a cui è indissolubilmente legato. Ed è in queste vaste lande sovrastate da un cielo plumbeo che scopriremo infine che cosa è lo skyfall del titolo.

Un film che merita senz'altro di essere visto sul grande schermo.





lunedì 29 ottobre 2012

Lo strano mondo di Robert Morgan

Ho sempre avuto una propensione per le storie inquietanti. Quelle che ti instillano un disagio sottile che si fa sempre più forte. Così quando ho scoperto Robert Morgan non ho potuto che amarlo.
Robert Morgan è un filmaker inglese, autore di strani cortometraggi popolati da personaggi animati in stop-motion (la tecnica usata in "Nightmare before Christmas" di Tim Burton, per intenderci), e calati in ambienti oppressivi e inquietanti dove si sviluppano le loro strane storie.
Penso che inquietante sia il termine più appropriato per definire il suo mondo oscuro popolato dalle ossessioni dei suoi personaggi, spesso reietti e soli.
Vi propongo qui sotto i suoi lavori che prediligo. Il primo, The Cat with Hands, racconta di un sinistro gatto che vive in un pozzo.
Il secondo, The Separation, è la storia di due gemelli siamesi che vengono separati chirurgicamente, e delle conseguenze che questo intervento avrà sulla loro esistenza.
Se The Cat with Hands è un breve, oscuro horror pieno di atmosfera, che suscita più di un genuino brivido lungo la schiena, The Separation è anche e soprattutto una storia struggente, disturbante, e commovente.


 









venerdì 26 ottobre 2012

Il punto d'onore

Qualche anno fa mi sono imbattuta nel dvd di un film che onestamente non conoscevo, ma che mi ha subito attratta, vuoi per il regista, Ridley Scott, vuoi per il titolo, vuoi per le poche immagini riportate sul retro. Le mie aspettative non sono state deluse. I Duellanti (1977) è uno dei più bei film che abbia mai visto. Riunisce due elementi che a mio parere sono essenziali per poter dire che un film è veramente ben fatto, ovvero un impatto visivo straordinario (con uno splendido utilizzo della luce naturale e locations che paiono quadri) e una storia interessante (tanto merito per questo oltre che allo sceneggiatore va a Joseph Conrad sul cui racconto lungo Il Duello, o Il Punto d'Onore il film è basato).
Si narra di due ufficiali napoleonici (interpretati da Keith Carradine e Harvey Keitel, perfetti), i quali iniziano una faida d'onore per una questione irrilevante, e questa faida si protrae negli anni, portando i due a sfidarsi a duello svariate volte, in quello che pare un meccanismo inarrestabile, che condiziona e ossessiona le loro vite.



I Duellanti è per me il miglior film di Ridley Scott, seguito da Alien e Blade Runner.
E' stato questo tra l'altro il suo primo film, e ricevette ottime critiche, che contribuirono al decollo della carriera di questo regista, a cui penso si debba riconoscere uno speciale talento visivo.
Non ho particolarmente amato i suoi film più recenti, e non ho visto Prometheus. Ma lo ammiro per i tre lungometraggi che ho citato, che penso abbiano ormai il loro meritato posto tra i classici della settima arte.



Se condividete l'idea che il cinema non debba essere solo una storia messa in scena, ma un'arte che sviluppa un proprio linguaggio, usando le immagini per creare emozioni e atmosfere, e queste immagini diventano parte integrante della storia, allora amerete questo film poco conosciuto forse, ma pronto a rilvelarsi ai nostri occhi rapiti come una raffinata poesia visiva.

mercoledì 24 ottobre 2012

Come sperperare i propri pochi denari

L'omino qui sotto l'ho comperato da Muji l'altro giorno. Ero appena uscita dal supermercato dove avevo preso due cose, con il pensiero :"Per questo mese nessun altro acquisto che non sia alimentare".
Poco dopo entro da Muji (se non lo conoscete è un negozio giapponese che vende mobili, abiti, orologi, oggetti per la casa e articoli di cancelleria, può ricordare un po' Ikea in veste nipponica, caratterizzato da un design semplice e moderno e dall'uso di materiali naturali tipo il legno) a fare un giretto, visto che era da un po' che non ci andavo. E zacchete mi imbatto in questo omino che magari a voi non dice niente ma a me è piaciuto subito da morire.
Così ho fatto due conti, e ho detto, ma sì, lo prendo.
E ho aggiunto anche questo alla mia varia collezione di oggetti di dubbia utilità (a parte il piacere estetico che mi danno quando il mio sguardo ci si posa sopra, ovviamente) che pian piano aumentano nell'appartamentino milanese  :-)

E' realizzato in legno, alto circa 25 cm, e come vedete nasconde all'interno un puzzle.









martedì 23 ottobre 2012

Le torte della nonna

Di tanto in tanto, quando passa la domenica con noi, mia nonna prepara una torta.
E' questa una delle evenienze più temute nella mia famiglia.
"Speriamo che non abbia fatto una torta" dice mia mamma mentre io e mio papà ci accingiamo a metterci in macchina per andare a prendere la nonna.
Delle volte la torta c'è, riposta nella vecchia borsa di vimini e coperta da un grande tovagliolo, tra la bottiglia di Cynar per mio papà e un pacchetto di pasta o una scatola di cioccolatini di dubbia provenienza per me ("inscì tai portat a Milan", ovvero "così li porti a Milano").

" U fai na turtela" (ovvero "ho fatto una tortella", non ho idea di come si scriva il dialetto quindi scrivo così come si pronuncia) dice la nonna una volta a casa nostra, estraendo il dolce dalla borsa.
Istante di massimo sconforto, quindi ci si affretta a riporre la tortella, ancora avvolta nel mistero del tovagliolo, sul ripiano sotto alla finestra.
Ci si mette a tavola, e quando si arriva al dessert, mia mamma, oltre a quello che abbiamo preparato noi, tipo meringhe con gelato alla vaniglia irrorate di cioccolato fuso, porta anche il dolce della nonna, che ci si svela finalmente nella sua inquietante bonarietà.
Hanno l'aria innocua, le torte della nonna. Delle tortelle, appunto. In genere tipo crostate alla marmellata. Personalmente non amo affatto i dolci alla marmellata, ma non è questo il punto.
Il problema è la pasta. Ora, io non sono certo una cuoca provetta, anzi, ma mi è capitato di preparare una frolla al cioccolato e so che di burro ce ne vuole. Direi che è essenziale per ottenere una pasta frolla degna di questo nome.
Quindi quando mia nonna una volta ci dice: "U metü un quei tuchetin de buter" (ho messo giusto qualche pezzettino di burro), ecco svelato l'arcano.
Ovvero, come mai le tortelle di mia nonna sono di una consistenza tale che puoi pensare di mangiarle solo se sei munito di scalpello o di sega.

Qualche volta la scampiamo, dato che la torta è stata fatta per mia zia che vive a pochi metri da noi. Le altre volte ci tocca mangiarne almeno una fettina (sempre che si riesca a tagliarla), mentre la nonna decanta le qualità della sua opera.
Poi, espletata questa formalità, la tortella torna sotto al suo tovagliolo sul ripiano sotto la finestra, e una volta partita la nonna viene destinata al cespuglio dove gli animali selvatici tipo volpi e ricci, la notte, vanno regolarmente a mangiare.
Spero di non avere sulla coscienza qualche loro dente rotto :-)

NOTA: voglio molto bene a mia nonna. Ammiro la sua forma e il suo spirito, notevoli in una quasi novantenne. Ma resta il fatto che le torte proprio non le sa fare.

ATTENZIONE: burro non rilevabile

lunedì 22 ottobre 2012

Su Edward Gorey, artista della leggera inquietudine

Ho scoperto Edward Gorey qualche anno fa, imbattendomi in libreria in un libretto illustrato intitolato L'Ospite Equivoco. Sono rimasta subito affascinata dalla storia di quello strano animale con la sciarpa e le scarpe da tennis che compare una notte davanti alla villa di una ricca famiglia dall'aspetto vittoriano, e che occupa da quel momento la loro casa, facendo costantemente cose tipo mangiare le stoviglie, gettare l'argenteria nel laghetto, camminare in sonnambula per i corridoi, e molte altre cose. Nessuno sa chi o che cosa sia, da dove sia venuto o perché. La storia termina con questa frase: "Da diciassette anni tiene loro compagnia e niente fa supporre che se ne andrà mai via".

Grazie a questo libro mi sono innamorata perdutamente dell'arte di Gorey, e l'ho collocato stabilmente nel pantheon dei miei artisti preferiti.
Ammiro moltissimo questo signore americano che viveva con svariati gatti nella sua casa nel Massachusetts, circondato dagli oggetti più svariati e da numerosissimi libri e numeri di riviste, opere d'arte di varia natura, in una meravigliosa accozzaglia di erudito e popolare da cui Gorey ha saputo attingere e cogliere il meglio, facendo confluire quelle svariate influenze nel mondo che nasceva dal suo tratto in bianco e nero. Era appassionato di mercatini dell'usato, di gatti e di film muti, di telefilm e di romanzi giapponesi, e di molto altro ancora.
Oltre che autore di parecchi libri suoi, fu illustratore per altri scrittori e si occupò anche di scenografie per spettacoli teatrali.

Edward Gorey con alcuni dei suoi gatti.

Le sue storie sono pervase da una leggera inquietudine, e del resto lui stesso diceva di sé: "Non so perché, ma lo scopo della mia vita consiste nell'instillare un disagio generale. Penso che il disagio sia una reazione dovuta verso questo mondo".
Così ci racconta di bambine sventurate, come la piccola Sofia Carlotta (ne La Bambina Sventurata, appunto), che dopo la morte della madre, con il padre al fronte, viene affidata ad uno zio, che però muore colpito da un mattone cadutogli in testa. Da questo momento il destino della povera Sofia Carlotta si farà sempre più fosco, ben lontano dallo stereotipo dell'orfanella che dopo tante peripezie trova infine la felicità. Qui sotto potete seguire la triste vicenda della bambina.



O come i piccoli protagonisti dello splendido The Gashlycrumb Tinies, dove ogni lettera dell'alfabeto è l'iniziale del nome di un bambino o di una bambina, tutti inevitabilmente destinati ad una tragica fine.







O ancora di cugini assassini (Questi pazzi cugini), o di genitori depravati (L'orribile coppia), o di viaggi in luoghi ignoti (La bicicletta epiplettica), e tante altre storie popolate da austeri signori dall'aria vittoriana, ragazze con lunghe collane di perle stile anni '30, bambini vestiti alla marinara, stanze tappezzate di elaborate carte da parati, e di gatti dall'aria indecifrabile.
Ma non solo i disegni hanno fatto di Gorey un vero artista, bensì anche i suoi testi, all'apparenza semplici, ma curatissimi, perfetto compendio delle sue immagini.



Concludo con l'incipit de La Bicicletta Epiplettica (la storia di un fratellino e di una sorellina che si imbattono in una strana bicicletta che li condurrà in un luogo ignoto):

"Era il giorno dopo martedì e prima di mercoledì"


Vi segnalo anche un bel libro per avere una panoramica sul lavoro di Edward Gorey, "Raffinati enigmi, l'arte di Edward Gorey", edito da Logos.



A proposito di questo blog

Sono approdata al mondo dei blog circa un anno fa, aprendo Come un animale, dove pubblico le mie riflessioni sulla spesso drammatica condizione degli animali, vittime invisibili dello sfruttamento umano, costantemente rimossi dalla nostra coscienza.

Questo nuovo blog invece, nelle mie intenzioni, sarà un luogo virtuale dove riunire riflessioni, spunti, frivolezze, arte e libri incontrati sul mio cammino e che hanno influenzato in qualche modo la mia vita.
Spero di destreggiarmi in questa nuova avventura sulla rete e mi auguro che quello che pubblicherò potrà trasmettere qualcosa ai naviganti che approderanno qui.
Quindi bando alle ciance e benvenuti  :-)